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Analfabetismo e agricoltura: il futuro prossimo dell 'Occidente

Analfabetismo e agricoltura: il futuro prossimo dell 'Occidente

Autore: Il Direttore - Emilia Urso Anfuso
Data: 11/03/2015 15:08:13

Nel Novecento, attraverso un attento percorso di evoluzione sociale, la popolazione italiana conobbe quella che a tutti gli effetti fu una rivoluzione: la percentuale di analfabetismo fu abbattuta attraverso normative che resero obbligatoria la scuola e ciò rese possibile a milioni di italiani di abbandonare l’attività agricola per entrare nel mondo della produzione, andando ad abitare nelle grandi città per iniziare un’esistenza che dava la possibilità di poter ambire a ruoli sociali altrimenti impensabili.

Istruzione dal un lato e diverse possibilità lavorative dall’altro, concessero agli italiani di poter guardare oltre, di poter immaginare un futuro diverso dai campi da coltivare e da arare, e di poter stabilire una vita diversa per la prole che, a buon diritto, avrebbe potuto avere le stesse possibilità di vita dei figli di chi in città aveva sempre vissuto. Nel “sogno comunista”, una delle caratteristiche era rappresentata proprio dalla pari possibilità di studio per i figli degli impiegati, dei professionisti e degli operai, si da renderli uguali pur provenendo da stati sociali assolutamente diversi.

La parità sociale appariva essere un progetto sano e da comporre minuziosamente con il sostegno della Politica e di una società che in tempi brevi riuscì ad adattarsi alle comodità della vita cittadina. Sembrano passati secoli eppure parliamo di una manciata di anni fa.

A un certo punto, diciamo intorno agli anni ’70, sembrò che questo processo di inserimento sociale della classe contadina in quella civile funzionasse al punto che molti, pur subendo lavori usuranti in fabbrica, videro in prospettiva un futuro ricco di possibilità e, come sempre accade quando ti è concesso di avere sogni e progetti, in molti si rimboccarono le maniche e compirono il miracolo dello sviluppo economico di una nazione che aveva ereditato morti e distruzioni a causa della seconda guerra mondiale.

L’istruzione alla portata di tutti, un lavoro stabile, una casa da comprare, un mutuo da pagare. L’Italia cambiava faccia grazie a milioni d’italiani che erano stati pronti a cambiare.

Per qualche decina di anni, le classi sociali si sono persino confuse fra loro. Di chi era figlio quel medico? Di un professionista o di un operaio che aveva letteralmente sudato sette camicie per consentire gli studi universitari al primogenito? La chiamavamo equità sociale. Pari possibilità, nessuna distinzione di classe sociale. Abbiamo ritenuto che fosse giusto e assolutamente necessario per poterci appellare “nazione civile”.

Al peggio non si pensa mai, specialmente in tempi di sviluppo. Abbiamo immaginato per molti anni che la situazione in Italia non poteva che progredire. Venivamo da un massacro, in tutti i sensi, nulla poteva disintegrare un sistema che appariva ormai consolidato. La creazione della classe media nel nostro paese è stata, tutto sommato rapida, così come adesso rapido è il sistema attraverso la quale viene distrutta.

La grande depressione economica che stiamo subendo, è in atto da circa sette anni. Un soffio di tempo che è bastato a disintegrare ciò che era stato costruito a suon di riforme e di battaglie per i diritti civili. Con la scusa della crisi economica, e attraverso i costanti tagli finanziari che questa determina, è stato abbattuto il diritto allo studio, quello al lavoro e quello alla famiglia.

La crisi, che palesemente non accenna ad essere arrestata, ci sta rapidamente gettando indietro nel passato. L’istruzione, quella di buona qualità, ridiviene peculiarità dedicata ai ricchi (la conferma definitiva l'abbiamo dai finanziamenti al comparto della scuola paritaria che tutti i governi negli ultimi anni hanno trasferito a questo settore a discapito della scuola pubblica) il lavoro nei campi torna ad essere una possibilità di vita, i diritti dei lavoratori vengono abbattuti sull’altare sacrificale della crisi economica.

Abbiamo di fronte un futuro che corre a ritroso. Un ritorno al passato che non essendo determinato dalla libera scelta quanto dall’impossibilitò da parte della popolazione di poter scegliere altrimenti, non rappresenta un miglioramento ma un indietreggiamento.

Un conto è decidere liberamente di prendere una strada, un conto è non avere altre strade da percorrere. I dati recentemente diffusi relativi al lavoro agricolo dei giovani under 35, parlano chiaro: nel settore agricolo, il 7% dei titolari di impresa è rappresentato da giovani, oltre 50.000 persone che per uscire dalla disoccupazione e dal precariato, hanno deciso di tronare alle origini, magari attivandosi dopo aver ereditato un terreno di famiglia. Tutto bene per carità, lavoro nobile quello della lavorazione della terra e della raccolta dei suoi frutti, non fosse per un’involuzione della situazione sociale, che torna ad esser simile a quella della prima metà del secolo scorso.

Il lavoro nei campi per ora costituisce in molti casi una valida alternativa alla disperazione. Ma dobbiamo chiederci cosa ci attende nelle prossime decadi. Al lavoro nei campi, corrisponderà l’abbandono degli studi accademici, con molta probabilità. In un sistema peraltro che non sostiene per nulla l’istruzione, come non poter immaginare che, in breve tempo, nel nostro paese si possa tornare indietro di circa un secolo? Contadini da un lato, ricchi dall’altro. Con una componente nettamente superiore per quanto riguarda la prima tipologia.

Tornare alle origini è buona cosa nel solo caso in cui ciò è determinato dalla constatazione del fatto che la conservazione di certe tradizioni sia migliorativa rispetto a usi e costumi spinti troppo oltre il limite del consentito e dell’accettabile nella comunità in cui si vive. Se il ritorno alle origini è determinato invece dalla volontà di destabilizzare e quindi distruggere un’intera classe sociale, così come sta avvenendo anche in altre nazioni occidentali, allora è bene fermarsi e riflettere: siamo sicuri di voler retrocedere a tal punto in nome di una crisi economica che appare essere sempre più chiaramente un progetto atto a far arretrare la società civile? Torneremo ai feudi e ai feudatari, e non sarà romantico, per nulla. Finché si parla con emozione di un passato che non riguarda più nessuno è un conto. Arretrare senza alcuna diversa possibilità è una cosa completamente diversa, che per ora non vediamo nella sua interezza, presi come siamo a discutere sul peggio che deve ancora arrivare. 


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